Sebbene sia considerato generalmente come uno dei “grandi” del Rinascimento, la fortuna critica di Luca Signorelli è stata piuttosto travagliata e tuttora il dibattito sulla portata innovativa della sua opera è aperto.
Già i contemporanei gli attribuivano una certa audacia nelle invenzioni, che unita al carattere “eccentrico” contribuiva a renderlo un “personaggio” originale. L’opera di Giorgio Vasari ha consolidato la sua fama di artista molto speciale, capace di virtuosismi e “ingegnoso”. Vasari l’ha anche considerato un precursore di Michelangelo e questo giudizio, pur essendo oggi ritenuto esagerato, continua a pesare in una certa misura sull’interpretazione della sua opera.
L’epoca romantica ha esaltato l’originalità di Signorelli, notevolmente ridimensionata dalla critica nella seconda metà del Novecento. La poliedricità dell’artista, capace di passare dall’intellettualismo acquisito alla scuola di Piero della Francesca al tradizionalismo devozionale, ha portato alcuni studiosi a ritenerlo sostanzialmente superficiale, privo cioè di uno spessore etico-filosofico autentico e profondo.
Oggi, dopo il suo radicale ridimensionamento critico, nessuno può considerare Signorelli un precursore in senso “spirituale” di Michelangelo. Oggettivamente, però, c’è un elemento che unisce la poetica dell’allievo di Piero della Francesca a quella di Michelangelo: si tratta della centralità del nudo e delle sue potenzialità espressive.
Un cielo terso e un vento gelido, la mattina del primo giorno dell’anno 2010, stavano accompagnando due visitatori verso la casa BATLLO’, gioiello architettonico di Antonio Gaudì y Cornet, uomo straordinario vissuto nella Spagna meridionale tra il 1852 e il 1926. Paolo Turchese, giovanissimo agente immobiliare originario delle zone etrusche dell’alto Lazio italiano e Piero Pannetti, altrettanto etrusco ma non più giovane e trapiantato nella città definita (spesso a torto) caput mundi. Avevano davanti a loro un bel numero di umani predisposti a resistere alle intemperie pur di entrare in dialogo spirituale con questo Antonio Gaudì, dentro un edificio definito “la casa delle ossa” per via dei balconi a forma di teschio vuoto. Davanti a loro, il magnifico viale chiamato passeig de Gràcia, metà al sole e metà all’ombra, spaccava in due una giornata che si presentava stimolante per centinaia di turisti stranieri. Davanti ai due partecipavano al supplizio della fila tre donne, verso la mezza età, una, rossa di capelli, una, leggermente sale e pepe e
una con le meches bionde. Avevano tutto l’aspetto di tre intellettuali parigine, forse insegnanti, vestite alla sessantottina, ovvero scialle con frange, baschi neri fatti a uncinetto, jeans che strusciano sui marciapiedi, niente tacchi alti, orecchini in fili di metallo con disegni incas sudamericani. Parlavano fitto fitto, incomprensibili, assorte nella guida da leggere prima di entrare. Piero sbirciò tra le pagine: sembrava polacco. Quelle parole con molte v ed elle appiccicate gli ricordavano papa “voitila”, quindi non erano francesi di sicuro!
Nel trastullo dell’attesa ci furono sguardi di cortesia e Piero osservò incuriosito quel nasino leggermente adunco, magro, la pelle chiara e un po’ lentigginosa, l’atteggiamento vergognoso di chi si sente timido e vorrebbe guardare il mondo con più sfrontatezza……
L’interno della casa si dilungava per quattro piani con l’ascensore, le pareti impreziosite di vetri colorati, porte in legno lucido rotondeggianti, ceramiche in stile liberty o meglio dire stile Gaudì, inconfondibile trionfo del simbolismo esoterico come nella cattedrale della Sagrada Familia, non lontano da quel viale maestoso che si intravedeva dalle finestre. Barcellona, nel pomeriggio del primo giorno dell’anno 2010, splendeva in tutta la sua magnificenza…..
Al quarto piano Piero si fermò, stanco di scattare fotografie con indosso un doppio giaccone: le scale strette permettevano appena il via vai di chi scendeva e di chi saliva. Apparve la ragazza dal basco nero e dal naso leggermente adunco, ferma sul pianerottolo appoggiata alla parete per far passare la gente. Piero si avvicinò, mentre una forza interiore spinse la sua mano sul suo braccio, lo sguardo dritto, fulmineo, bruciò ogni risposta di lei. Ammutolì in un indefinito terreno dove non si sapeva se era un problema di lingua o di sbigottimento. Lui si avvicinò e le dette un bacio leggero sulla guancia, e di nuovo un bacio tra la bocca e la guancia e di nuovo ancora un bacio sulle labbra sottili e morbide…Uscì un sottilissimo lamento dalle viscere di lei e lui spalancò fragorosamente la porta che non fece alcuna resistenza. Un flusso di morbidezza inondò quella casa dentro la casa di Gaudì e lei si ritrovò ad entrare nella casa di lui che stava dentro la casa di Gaudì. Le teste cambiarono più e più volte angolazione sul collo, le
porte furono sbattute, le mani si trovarono e nessuna parola in nessuna lingua venne pronunciata, mentre decine di turisti scambiavano parole in tutte le lingue su e giù per le scale del grande Maestro Antonio Gaudì, nel primo pomeriggio dell’anno 2010 nella maestosa città di Barcellona.
Arrivò sulla scena Paolo Turchese, si fermò a guardare il film; erano passati due buoni minuti quando improvvisamente si ricordò dell’aereo. Mancava poco al check-in, bisognava anche tornare in hotelper le valigie…
Una mano di lei passò delicatamente sul volto di lui, la testa appoggiata alla parete.
-Io scrivo poesie…faccio acquerelli, watercolours! Scrivimi il tuo indirizzo…-, disse lui, mentre frugava nella giacca per cercare la penna e la carta. Allora dalla bocca di lei uscì una sola parola: -ah, maestro!-
Scrisse il suo address: PRAGA!! Wonderfull, pensò Piero, una città che lo aveva sempre affascinato, per la tradizione di una forte presenza ebraica, la gente più autoironica che esiste sul pianeta, e per essere considerata il vertice di un triangolo magico formato dalle altre due città di Torino e Lione.
Due ore dopo un aereo dell’Alitalia si levava in volo verso Roma, dopoché il pilota annunciò turbolenza previsto sull’aeroporto di Fiumicino.
Ma a Piero Pannetti, della turbolenza atmosferica non importava granché perché era occupato a pensare alla turbolenza che gli aveva causato la donna di Praga per le scale della casa di Antonio Gaudì y Cornet, vissuto a Barcellona a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.
Pietro Pannucci scrive racconti, poesie, dipinge acquarelli, fotografa le stagioni.
Viene dalle zone etrusche dell’alto Lazio pur essendo vissuto per 42 anni a Roma. Ha fatto installazioni di acquarelli e foto sia a Roma che in Calabria e a Capodimonte dove è nato nel 1947.
Non disdegna qualche volta l’agone politico scrivendo brevi riflessioni a carattere sociologico.
Nella prefazione del suo libro intitolato “Di’ sempre quello che pensi”, Corrado Barberis, emerito esperto di tradizioni alimentari della società contadina, scriveva:
“…. molto spesso la poesia di PANNUCCI coinvolge il Supremo Creatore; magari dopo aver sollevato il lenzuolo, mostrato un miele segreto. ‘Chiesa e casino’: così Manzoni liquidava il povero Tommaseo, in perenne rincorsa tra preghiera e sesso. Ma con Pannucci la battuta non funzionerebbe perché non si tratta di accostamento bensì di fusione. È in altri termini il casino a farsi Chiesa e la Chiesa casino, l’amore profano si confonde con il divino anzi è il divino. E viceversa. Certe sue vignette, gli inviti a rovistare nei cassetti della sua anima per tirarne fuori camicie e calzini aggiornano Guido Gozzano ad una civiltà che non è più quella delle ville di Aglié ma che, periurbana com’è, mantiene il sentore del muschio, della campagna. Poesia DOC.”
Quando verrai Potrai frugare in tutti i cassetti Della mia intimità Potrai pure lasciarli aperti Scoprendo camicie e calzini Che butterai in aria per gioco. Danzerò per la stanza Tra le camicie sparse a terra E la mia Anima vivrà Come qualche migliaio di anni fa
Avevo all’incirca quattordici anni quando mio padre a giugno faceva il vuoto con la sua falce tra il grano biondo che ondeggiava al vento marino. Lui lasciava per me al suo fianco un piccolo corridoio di spighe che io tagliavo a fatica. Da allora faccio altrettanta fatica a rinunciare all’idea che mio padre è immortale.
Evidenti sono le tracce di un cavallo sulla sabbia nera proprio a pelo della riva del lago che stamattina è celeste come un cielo rovesciato.
Se ci fosse VITTORIO Saremmo in Piazzetta Io, lui, Filippo, Gianni il barbiere, Rocco, Renzo Patrizi, Rossano, Con le orecchie “aggelate” E il naso all’insù Per guardare la Rocca sotto la neve, il pino di ARALDO tutto bianco, le macchine sepolte, la tramontana alla Mergonara. E tutti avremmo detto che una neve così l’avevamo vista da piccoli nel 56 Quando le mucche erano nei pianterreni delle case E si scongelavano le barbabietole con pentole di acqua bollente.
RIMINI Si sono dati da fare nel tentativo di sovrapporre i loro sogni. Sotto gli accappatoi bianchi e i pareo trasparenti, maschi e femmine hanno azzeccato si e no un colpo su cento. Ora la stagione di caccia volge al termine e qualche goccia di pioggia stende la sabbia che si era agitata sotto il peso dei loro corpi. Qualcuno ha chiuso gli ombrelloni e l’ultimo è venuto via.
Il tratto distintivo di Coccioli è un sorprendente e originale concetto di sintesi.
Perfettamente aderente ai suoi tempi, utilizza la macchina fotografica al massimo delle possibilità che tale strumento offre, attraverso rielaborazioni complesse e raffinate la usa come un pennello restituendo una riscrittura del visibile composta da colori e forme astratte e informali tipici di un quadro. Ciò che provoca una virata emotiva e, addirittura, lascia spiazzati, però, è il fatto di avvertire il punto esatto in cui si incontrano tutti gli opposti, passato e presente, interiorità ed esteriorità, amore e morte, gioia e malinconia, sogno e realtà… Là, nel “luogo” dell’incontro, per chi guarda, ci sono tutte le componenti delle quali nessuno è completamente privo. Le figure evanescenti, nei loro movimenti cristallizzati, ci ricordano che tutto è vacuità, ma nello stesso tempo ci mostrano la loro intimità. Le figure collegate a momenti di grande tragedia ci dicono che non bisogna dimenticare, ma anche che una dose di malvagità è in ogni essere umano.
L’arte del passato ci sovrasta e ci guarda benevola, ma anche guardinga, forse ci fa vergognare di non esserne degni custodi. Luci e lucori ci conducono là dove sogno e realtà, reale e irreale catturano la nostra essenza.
Attraverso immagini apparentemente affastellate, disposte con un virtuosismo per nulla statico, racconta la contemporaneità dando origine ad un dialogo aperto che permette libere incursioni nel mondo onirico.
Non ci da risposte Coccioli, ci lancia nei meandri del cervello e nei grovigli del cuore, in una direzione nella quale non c’è inversione di marcia, ciò che ci è stato disvelato non è più edulcorato, questo sguardo interiore richiede una conclusione che, necessariamente, diventa soggettiva.
L’importante è la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità, bisogna accettare questa proposta di indagine, seguire la direzione dei sogni per poter vivere momenti edificanti, ieratici, e raggiungere, finalmente, “la città sognata”.
Le sue fotografie sono dei “deja vu” perché quel “già visto” è dentro di noi, siamo noi. (Mariangela Mutti)
L’originale peculiarità di Mauro Palomba è l’uso esclusivo della ‘biro’. Strumento che l’artista più ritiene a sé confacente per restituire la realtà sedimentata negli strati più profondi del suo sentire. La semplicità del mezzo espressivo arricchisce di particolari scene che rivelano un animo teso all’esatta trascrizione del reale. Attraverso l’esecuzione di alcuni ‘assoli’ presentati in questa esposizione, Mauro Palomba compie la sintesi di luoghi tra loro del tutto differenti dai quali sembra attingere la forza del dire. In totale intimità. Senza bisogno di figure protagoniste o coprotagoniste. (Mariangela Mutti)
La grazia e l’inquietudine, ovvero il sogno della bellezza e l’insidia del turbamento, l’armonia e la melanconia, la vitalità della leggiadria e il peso, l’oppressione dello sfinimento e della morte. Di fronte all’incanto di un papavero impregnato di colori e umori esuberanti e vitali, il disincanto di una natura smorta e come esaurita in una lacustre tristezza.
Pietro è un fecondatore di immagini che conferisce senso ad una certa ambigua e inconciliabile distanza fra l’apparenza e la sostanza. Crea una zona d’ombra, tra significante e significato, che però accelera la percezione costringendo lo “sguardo” ad una sorta di escursione straordinaria che dissipa la realtà in un quid non visibile e assolutamente fuori dal contesto narrato. Voglio dire che duplica la realtà in una zona franca che permette la riflessione sull’essere dell’oggetto nella sua natura migratoria, trasportabile, anche rispetto al concetto spaziale, su un piano traslato, quello di una fotografia dove è possibile sostare e contemplare il mondo.
La sua opera è mentale e concreta. Concreta la decostruzione in frammenti e la fatica di sminuzzare e isolare il particolare. Mentale è l’assemblaggio di una struttura capace di penetrare un mistero e fare ordine in una bufera del sentimento in grado di fissare , per esempio, un paesaggio crepuscolare e depurarlo della sua aurea lugubre, penetrando il mistero della morte e riscattarlo nel duplicato della tranquillità, del silenzio e del riposo. Oppure ribaltare la beata indifferenza di un fiore immobile in un laboratorio di libera creatività dove esplode, con semplicità e naturalezza, l’aspetto ludico dell’intera esistenza. La vetrina della realtà, insomma, che si offre ai passanti col suo catalogo di frammenti ed epifanie, e con tutto il principio delle sue antinomie: assenza, mancanza e vuoto ma anche presenza, potenza e desiderio.
Del resto guardiamo le foto. Nei suoi boschi già il crepuscolo è l’immagine di un ciclo che finisce, di un istante sospeso in uno spazio e in un tempo di ricominciamento. Una alchimia che trasforma la stessa sostanza passiva.
I suoi fiori, poi, che cosa sono se non un elisir, una fioritura e un ritorno al centro? All’unità primordiale della vita, come quello di uno scatto fotografico, unico e solo? Ecco il mistero della fotografia di Pietro. Un persuasivo non-luogo dove il fenomeno è metafora e a sua volta copia di un contesto autonomo capace di rinnovarsi ma anche di farsi luogo, rifugio, in cui anche la solitudine acquista valore, sebbene cercata o ricercata in una natura troppo apertamente dichiarata.
(Gianfranco Labrosciano – Centro Studi Promozione e Ricerca dell’Arte Contemporanea)
Nasce a Roma nel 1959 e qui vive e lavora. In famiglia il nonno e lo zio, entrambi artisti, gli trasferiscono la passione per il disegno e la pittura. Mentre frequenta il liceo classico e poi l’università, si appassiona al disegno: esegue schizzi all’aperto, che poi riporta su opere a matite colorate, a pastelli ad olio e a tempera. Nel 2000 passa all’olio, che gli permette di esprimere in modo completo la sua sensibilità, e che alterna a raffigurazioni a pastelli morbidi. Da sempre condivide la pittura con l’altra sua passione: il pianoforte jazz. Le sue rappresentazioni sono eseguite con luci e colori tipici del ‘900. Spesso le sue immagini bucoliche “sono animate dal passaggio di locomotive a vapore e vagoni ferroviari che esprimono movimento, desiderio di avventura, sogno di scoprire mondi nuovi a fronte di una realtà immanente. La fantasia viaggia verso la scoperta di nuovi scenari, il mondo bucolico resta l’immagine romantica dove si ferma il tempo” (prof. Claudio Lepri).
La pittura di Adriana Rigonat si può far rientrare nell’ambito della tendenza denominata genericamente “informale”. Tuttavia, l’area dell’informale è talmente vasta e variegata da non poter più costituire, almeno secondo il mio modesto parere, un criterio identificativo valido.
In senso stretto, si dovrebbe definire “informale” tutta l’arte che rifiuta l’elemento formale, anche in senso astratto, a vantaggio della materia e/o della spazialità. In realtà, vengono considerati informali anche autori che non hanno rifiutato la “figura”, sia pure deformata o ridotta ai suoi minimi termini.
Il caso della Rigonat è, in questo senso, abbastanza emblematico. La sua pittura non rinuncia assolutamente alla forma. Le sue opere sono popolate di “figure” di vario genere, tracciate con un tocco che io considero estremamente personale ed originale, direi inconfondibile. Ma sono figure vaghe, al limite del riconoscibile, e mi fanno pensare alle macchie del famoso test proiettivo di Rorschach. In effetti, proprio per la loro “incompletezza formale” lasciano un margine molto ampio alla fantasia ed alla sensibilità dell’osservatore. Ciascuno “proietta” in esse ciò che sente e che vuole. Sono, come ha scritto Isabella Bembo, “immagini che vibrano, che palpitano, che suggeriscono a ciascuno di noi un’interpretazione soggettiva di quanto ci attornia e che si ricollega al nostro vissuto e al nostro modo d’essere”.
Un aspetto che mi colpisce molto è la quasi assoluta indeterminatezza dello “sfondo”. Le scarne figure sembrano immerse o sospese, a seconda dei casi, in un’atmosfera indefinita, priva di confini e di piani precisi. “Sono”, nel senso che “esistono”, ma non è chiaro “dove” stiano. In senso esistenzialista, sembrano provenire dal nulla e andare verso il nulla, quasi “gettate” in uno spazio con il quale non sembrano avere alcun tipo di rapporto organico. Sta qui, credo, la principale forza evocativa di queste opere, capaci di suscitare emozioni diverse: attesa, sorpresa, speranza, nostalgia…
(prof. Pietro Massolo)
http://www.rigonatadriana.it
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